un ampio distretto con un proprio dominio.
La brama di potere dei castellani era frenata da nessuno, specie in presenza
di un regno incapace di controllo e di sorveglianza, nel tentativo di ottenere
un influsso sull'ordinamento ecclesiastico e, eventualmente, di trasformarlo
a proprio favore. Talché spesso i castellani si appropriavano illegalmente di
parte del patrimonio della chiesa e minacciavano la popolazione, in alcuni
casi anche con prepotenza spaventosa, in forza anche dei diritti acquisiti
di poter giudicare e perciò anche condannare i sudditi per i delitti.
Jòrg Jarnut, nel suo libro «Bergamo 568 - 1098», edito dall'Archivio Bergamasco
nel 1981, dal quale sono state tratte parecchie delle notizie sopra riferite,
scrive nel riassunto conclusivo: «...di fronte al
disgregarsi delle vecchie posizioni di potere, si consolidarono quelle nuove
delle grandi famiglie, tra le quali i diversi rami dei Gisalbertini
continuarono a svolgere un ruolo di primo piano. Essi acquisirono,
legittimamente o illegittimamente, diritti che un tempo spettavano al re o al conte».
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L'avere investitura su possedimenti in Telgate, non solo parrocchia ma anche pieve,
dove spesso affluivano riscossioni provenienti da vasti territori di vita rurale,
rappresentava una posizione molto favorevole per la fondazione di un dominio basato
sul castello e nello stesso tempo una forte opportunità per esercitare pressione
anche sulla chiesa parrocchiale.
In tale contesto di poteri e interessi soprattutto la figura dell'arciprete era
chiamata a svolgere un ruolo assai delicato, quale elemento equilibratore di posizioni e interventi.
L'arciprete doveva tenere in un certo conto il castellano, ma anche il castellano
doveva tenere in un certo conto l'arciprete.
Difficilmente si finiva in scontri diretti, anche perché i chierici rappresentavano
una percentuale non trascurabile del ceto medio e superiore, e quindi dalle famiglie
nobili venivano scelti ed eletti i reggitori di parrocchie importanti, sovente imparentati tra loro.
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