Nel gennaio del 1829 moriva in Telgate il Sacerdote don Giuseppe Calvi, uno degli arcipreti più dotti e più illustri che
si siano succeduti nella chiesa plebana di Telgate. Letterato distinto, poeta apprezzato, era stato in Bergamo professore
di lettere, bibliotecario civico, savio corrispondente di parecchie accademie, ed aveva dato alle stampe parecchi lavori
in prosa ed in poesia. Nominato arciprete di questa insigne chiesa di Telgate, era stato per molti anni parroco zelantissimo,
oratore celebre, senza nulla trascurare dei suoi prediletti studi letterari.
Veniva tumulato nel cimitero di Telgate, dove gli fu anche eretta una lapide monumentale, con dedica latina che ne celebra
le alte benemerenze.
Don Giuseppe Calvi era nato a Moio de' Calvi nell'Alta Valle Brembana nell'anno 1755, ed era stato ordinato prete nel 1777
o '78. Nel seminario di Bergamo si era molto distinto, cosicché, chierico ancora, aveva discusso in pubblico tesi
di filosofia e di teologia, ed aveva predicato in duomo ed altrove.
Appena prete fu mandato maestro privato in una distinta famiglia di Schilpario in Valle di Scalve ma, dopo soli due anni,
il vescovo monsignor Dolfin lo richiamava in seminario quale professore di sacra eloquenza. Dalla sua scuola uscirono
parecchi distintissimi oratori sacri.
Egli stesso il Calvi era oratore apprezzatissimo e molto ricercato in diocesi ed anche fuori. Ma, oltreché insigne
oratore, egli era anche un distintissimo letterato e un valentissimo poeta italiano e latino; e i lavori suoi letterari,
anche in pubbliche accademie, erano calorosamente applauditi.
Bella e curata la sua prosa latina, composti, sonori e robusti i suoi versi latini, nei quali era improvvisatore felice,
così da scambiarne di vivaci e singolari coi maggiori poeti dell'epoca e con monsignor Dolfin, pure felice poeta
latino, oltre che letterato di varia produzione.
Singolari, anche se non sempre geniali, le sue poesie italiane, che egli scrisse nei metri più diversi e più classici.
Vastissima poi la sua produzione di prosa italiana, poiché gli piacque quasi parola per parola scrivere i suoi
numerosissimi discorsi. In queste prose si sente la vivacità e la singolarità del suo ingegno, che si
avvantaggiava di larghissima cultura biblica, religiosa e anche classica e moderna.
Attraverso le accademie e le biblioteche, il Calvi era in rapporti di studi, di corrispondenza ed amicizia con molti
letterati del suo tempo, specialmente poi con il grande scienziato bergamasco Lorenzo Mascheroni e coll'insigne cardinale
Angelo Mai, che gli era stato discepolo.
Senonchè, per premiare il professore Calvi dei servizi resi al seminario ed alla Chiesa, il vescovo Dolfin,
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grande ammiratore ed amico del Calvi, nel 1794 lo nominava arciprete di Telgate, a soli 40 anni; ed egli prendeva
possesso della parrocchia nel Natale di quell'anno, reggendola poi fino all'anno 1829, cioè per circa 34 anni.
Pur continuando ad occuparsi di letteratura e di poesia, l'arciprete Calvi rivelò subito belle doti di pastore e
di parroco; ed attese preferibilmente alla sacra predicazione tanto in parrocchia che altrove, correndo miglior via di
quella che correvano molti altri oratori sacri suoi contemporanei. E se tutti i suoi discorsi d'occasione e i panegirici,
detti quasi sempre in grandi circostanze, pur non essendo scevri di alcuni difetti del tempo, si presentano assai buoni
nella sostanza e nella forma, non hanno certo minor pregio le sue omelie e le sue spiegazioni catechistiche, che
costituiscono il nerbo della predicazione parrocchiale. Il Calvi non difettava certo di pratiche applicazioni morali,
anche se nei suoi scritti siano appena tracciate. La sua predicazione aveva uno spiccato carattere di originalità
che rivelava in lui il lampo di genio; talvolta però pareva dilettarsi soverchiamente di bizzarrie, quantunque
riuscisse egregiamente anche nelle cose difficili ed astruse. Aveva abbastanza frequente e facile anche la celia, naturale
al suo temperamento piuttosto gioviale; ma essa non era mai sciatta e molto meno scurrile e nulla toglieva né
alla sua predicazione, nè alla sua dignità personale.
Non è quindi da meravigliare se, i suoi discorsi, detti dal Calvi con amore e pietà, con lena e sapore suo
proprio, fossero ascoltati con avidità e, dopo la di lui morte raccolti e pubblicati per le stampe, e dedicati
«in rispettoso atto di esultanza» a monsignor Bartolomeo Romilli, già prevosto di Trescore, indi vescovo di Cremona,
e poi arcivescovo di Milano, grande amico ed ammiratore del Calvi, ed egli pure versatissimo nella sacra eloquenza, per
averla egli pure, dopo il Calvi, insegnata nel patrio seminario.
Ma l'arciprete Calvi non attese soltanto alla predicazione in parrocchia e fuori: fu anche un arciprete di azione, almeno
fin che gli bastarono le forze e la salute. Certo non si debbono ricercare, nell'azione pastorale del Calvi, quelle forme
di attività e di zelo che sono tutte proprie dei nostri tempi. Bisogna tener calcolo delle condizioni dei tempi in
cui il Calvi è vissuto.
Allora erano ancora quasi sanguinanti i frutti del 1789, quando la Rivoluzione francese aveva proclamato i famosi diritti
dell'uomo contro i diritti imperscrittibili di Dio; ed anche in Italia se ne sentivano le ripercussioni. La Chiesa godeva
tutt'altro che la necessaria libertà; lo stesso pontefice Pio VII aveva dovuto andare prigioniero a Fontainebleu, e
il popolo medesimo non godeva piena libertà di culto.
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